Agosto 2, 2023 - di Redazione
Costruire un marketplace è una delle sfide più difficili per chi fa prodotto, e ormai lo sappiamo bene.
Il problema principale di qualsiasi Marketplace è che bisogna costruire due o più piattaforme che facciano incontrare domanda e offerta, senza che – quando cominci – tu abbia ancora nessuna delle due.
Gli utenti di ciascun lato del Marketplace hanno caratteristiche, obiettivi e motivazioni diverse. L’unica cosa di cui si è certi quando si lancia un Marketplace è che nessuno vorrà mai far parte di un “mercato” in cui una delle due parti non sia presente.
Immaginate un mercatino, come quelli di Natale, pieno di potenziali clienti propri ad acquistare, ma senza alcuna bancarella; o, al contrario, un mercatino pieno zeppo di bancarelle con tantissimi oggetti in vendita ma senza alcun cliente. In entrambi i casi, nessuno sarebbe contento del risultato e difficilmente né venditori, né acquirenti tornerebbero al mercatino una seconda volta.
Ecco perché abbiamo chiesto a 5 fondatori di alcuni dei Marketplace digitali di maggior successo in Italia di raccontarci come hanno fatto ad avviare le proprie aziende (e di conseguenza prodotti), partendo da zero.
Pronti?
Ne parliamo con:
Cosa abbiamo chiesto ai nostri eroi del prodotto:
Per Marco Ogliengo lanciare un Marketplace partendo da zero significa accettare che ci sono delle richieste demand insoddisfatte. Ma come è iniziato tutto in ProntoPro, la piattaforma digitale che permette ai professionisti di entrare in contatto con potenziali clienti? “Demand. Il motivo è che il canale principale di Demand generation per ProntoPro era principalmente SEO: molto lento e andava costruito nel tempo. Non puoi andare in modo granulare sulle sole categorie o geografie per cui hai già supply: devi iniziare a costruire SEO per tutto, e poi scoprire quali categorie/geografie arrivano in prima pagina e iniziano a portarti domanda. Per contro, una volta che sei in prima pagina per “idraulico Milano” per esempio, e inizi a ricevere richieste, è abbastanza rapido trovare supply: basta chiamare un idraulico e dirgli ‘ho un lavoro per te. Lo vuoi?’. Abbiamo quindi accettato che ci fossero richieste (demand) insoddisfatte”.
Fubles.com è una piattaforma di “Social Sport Sharing” con una delle community sportive più attive in Europa. Un Social Network che permette di organizzare e gestire partite di calcetto (e non solo) risparmiando tempo e denaro. Mettendo insieme giocatori, partite e centri sportivi di una zona. Come molti altri marketplace, anche Fubles si è trovato ad affrontare il famoso problema del ‘chicken-egg’, come ci ha spiegato Giuseppe De Giorgi.
“Come attrarre giocatori se non c’è un’offerta valida di partite organizzate in zona? Come attirare organizzatori se non ci sono giocatori nelle vicinanze interessati a partecipare alle loro partite? Nella nostra esperienza abbiamo risolto questo problema posizionandoci inizialmente come un tool per l’organizzazione di partite. Abbiamo attirato quindi organizzatori interessati ad utilizzare la nostra piattaforma per alcune funzionalità utili. La gestione degli inviti, la distinta della partita, un profilo giocatore completo di informazioni utili (affidabilità, livello, ruolo, partite giocate): sono state le funzionalità più apprezzate del nostro prodotto fin dall’inizio.
Dato che le prime partite su Fubles risalgono ad aprile 2007 – quando WhatsApp ancora non esisteva e Facebook aveva una bassa penetrazione in Italia – ci siamo posizionati come uno strumento che semplificava l’organizzazione di partite, permettendo così di creare una base solida per la nostra community. Abbiamo attirato un gruppo di organizzatori entusiasti che avevano già un bel numero di amici pronti a partecipare alle loro partite. Inoltre, molti dei giocatori che hanno iniziato ad utilizzare Fubles come strumento per partecipare alle partite organizzate da altri, alla fine si sono poi convertiti in organizzatori, ampliando e differenziando ulteriormente l’offerta”.
La crescita di Fubles è quindi stata principalmente alimentata dalla sua community, con le partite al centro dell’esperienza utente. In questo modo, è stato creato un effetto network in cui organizzatori e giocatori si sono reciprocamente attratti, portando a una crescita organica della piattaforma. Più partite organizzate comportano una maggiore utilità del servizio. Il che si traduce in un aumento del numero di giocatori che si uniscono alla piattaforma, aumentando così la probabilità di completare più partite.
In Treatwell, il più grande portale in Europa per la prenotazione di trattamenti di bellezza e benessere, si è partiti invece dalla supply perché il Marketplace local del beauty è un mercato molto frammentato, come ci spiega Alessandro Bruzzi. “Il Marketplace della bellezza è molto critico. La maggior parte dei clienti è loyal (oltre il 70%): questo fa si che la supply deve avere ordini di grandezza molto superiori per generare densità. Il costo per fare questo lato demand è folle: contando anche che lato demand bisogna anche introdurre l’effetto di education sulla persona che deve cambiare modo di fruire un certo servizio.
Per capire anche Demand/Supply o Entrambe, bisogna valutare se il marketplace in questione è un marketplace dove si può generare effetto lock-in. Una volta che si parte con un SaaS enabled marketplace che permette di avere un marketplace esclusivo (se volete approfondire, avevamo parlato di come funziona un business usiness model SaaS B2B in questa puntata del nostro podcast), è fondamentale prendere tutta la supply in modo più esclusivo possibile.Lo vediamo anche con Uber Eats o Deliveroo: quando il ristorante lo puoi trovare solo su una piattaforma, crea un vantaggio super importante e impossibile da replicare). Inoltre, partendo lato supply si generano revenue iniziali, recurring mensili che permettono di pagare la prima parte di costi fissi e si valida così il modello di un churn molto più basso, con un SaaS a supporto del marketplace”.
In Musement, la piattaforma online per attività, tour, musei, spettacoli ed eventi artistici in Europa e nel resto del mondo, invece, sono partiti ambo i lati, come ci racconta Fabio Zecchini. “All’inizio il focus era sulla parte Supply perché volevamo comunque dimostrare agli investitori di saper chiudere contratti nel mondo dell’arte e della cultura. Quindi, il primo anno ci siamo focalizzati sulla parte Supply e abbiamo chiuso l’accordo con VivaTicket e, fin dall’inizio, l’obiettivo era avere la scalabilità massima della piattaforma. Anche la parte Demand all’inizio – soprattutto del B2C – è stata lasciata a perdere. O meglio, ci siamo attrezzati per avere qualcosa di accessibile dal punto di vista SEO, è così è stato. Le prime vendite venivano direttamente da SEO perché c’erano mostre d’arte che avevano il sito soltanto in italiano e quindi le persone (soprattutto americani o stranieri) venivano da noi a comprare il biglietto perché trovavano una landing page indicizzata SEO in lingua”.
In Giglio.com, vetrina digitale dei negozi fisici che si occupa della vendita online di articoli di moda di lusso multimarca e su scala globale, si è partiti con il Marketplace diciamo un po’ da entrambe le parti, così come racconta Giuseppe Giglio. “Ad un certo punto ci siamo resi conto conto che quello che era un vantaggio competitivo immediato (cioè quello di avere la disponibilità dei prodotti e dei brand più prestigiosi), di fatto diventava anche un limite quando questo prodotto andava in rottura di stock oppure quando un brand non era disponibile nei negozi fisici e non lo era nemmeno online.
Quindi, in realtà, l’idea che ci siamo fatti è stata quella di provare a superare questo limite. Quindi siamo partiti come necessità da parte della domanda o comunque di una domanda ipotetica che noi immaginavamo ci servisse per poter scalare, e da lì abbiamo cominciato a cercare dei colleghi che potessero essere anche dei Supplier, dunque fare sourcing di prodotto non solo e soltanto dei nostri negozi, ma anche dai tanti negozianti che effettivamente non avevano un proprio mondo digitale sviluppato”.
Abbiamo chiesto ai nostri cinque eroi del prodotto che tipo di strategia hanno utilizzato per popolare Supply e Demand. Per il Demand, Marco Ogliengo ha utilizzato inizialmente la SEO. Poi, dopo aver stratificato, hanno aggiunto altri canali (PPC, TV, etc); per la Supply, invece, sales & lots of “growth hacking”.
Ma popolare Supply e Demand è una sfida comune per tutti i marketplace, e Fubles non è stato da meno, così come racconta l’esperienza di Giuseppe De Giorgi. “Per far fronte a questo, abbiamo adottato una strategia bilanciata che si è concentrata sia sul campo che sul digitale. Ma c’è un punto cruciale che voglio sottolineare: il fatto che i fondatori e i primi dipendenti di Fubles fossero tutti giocatori e organizzatori di partite. Questo ci ha permesso di capire le esigenze della community e di promuovere il prodotto con i canali giusti (“eat your own dogfood”).
Per popolare l’offerta di partite, abbiamo intrapreso un grande lavoro di “field sales”, contattando direttamente i centri sportivi e gli organizzatori per presentare loro la nostra piattaforma e le sue funzionalità ad hoc, progettate appositamente per le loro esigenze. Abbiamo fornito un onboarding altamente personalizzato e utilizzato strategie incentivanti per far sì che gli organizzatori iniziassero ad utilizzare la nostra piattaforma in modo efficiente e produttivo. In questo modo, abbiamo costruito una base solida di organizzatori che hanno poi portato i loro amici giocatori sulla piattaforma”.
Per aumentare la domanda, Giuseppe e il suo team si sono poi concentrati principalmente sui social media, la promozione locale, l’organizzazione di eventi e le press release. Hanno scelto di utilizzare Facebook, Instagram e Twitter per raggiungere un pubblico ampio e variegato, creando contenuti che interessassero ai potenziali giocatori, ma non solo. Hanno pianificato diverse campagne hyper local organizzando eventi e collaborando con brand e associazioni sportive per diffondere la conoscenza della piattaforma. Infine, hanno utilizzato le PR per raccontare la loro storia, diffondere notizie e informazioni sulle evoluzioni della piattaforma, attirando l’attenzione dei media e di potenziali utenti.
“Il nostro obiettivo principale è sempre stato quello di creare una community attiva e coinvolta, promuovendo la piattaforma come un luogo in cui gli appassionati di sport possono incontrarsi e giocare insieme. Questo approccio ci ha permesso di crescere in modo organico e di creare un network effect forte e sostenibile, che continua ad alimentare la crescita di Fubles ancora oggi”.
Diversa situazione in Treatwell, come racconta Alessandro Bruzzi. “Per popolare il lato supply, all’inizio non c’era altro modo del ‘porta a porta’. Questo consente di costruire una base iniziale di fiducia e relazione, soprattutto nel settore locale dei servizi alla bellezza. Per iniziare a creare anche un rapporto di fiducia abbiamo fatto accordi con i maggiori brand di bellezza, così da avere un canale referenziato con i partners tramite canali già attivi di fiducia a cui essere associati. Questo, almeno, serve fino a quando si arriva al 5% della supply, partendo dal top della supply a scendere (assolutamente vietato il contrario).
Bisogna anche prendere la supply che ha meno bisogno del Marketplace all’inizio, perché è la supply che è più paziente e che permette di costruire invece la parte di trust lato Demand. Avendo la migliore supply, di fatto si produce awareness e posizionamento di qualità in modo automatico e gratuito. Successivamente questo diventa fondamentale perché consente anche di attivare iniziative di outbound tra email e chiamate e social media, facendo leva sui partner già famosi, di qualità e conosciuti che sono già sulla piattaforma e sul marketplace.
Una volta che si arriva al 10/20% della supply (e bisogna essere molto anche chiari sulla strategia di reach, focalizzandosi sulla densità, sulla geografia che è già più propensa ad attivare questo servizio e non fare macchia di leopardo lato supply), si può attivare PPC/ADV a performance su tutti i canali possibili con una strategia omnicanale e di alta segmentazione: bisogna arrivare ad una esposizione molto alta per far funzionare la pressione pubblicitaria. Questo funziona – però – se si ha un team di sales a supporto: un sistema di self-signup non funziona quasi mai in un marketplace perché non permette di regolare la qualità del partner e la qualità delle informazioni”.
In Musement, si è andati inizialmente a braccio. “All’inizio il tema era: chiudiamo l’Italia, facciamo questa cosa dall’Italia perché possiede il 70% del patrimonio culturale a livello a livello mondiale. Quindi siamo andati molto focus sulle top città italiane, tra cui Milano, Firenze, Roma, Venezia, che poi è anche quello che volevamo dimostrare ai nostri investitori che poi si sono convinti e ci hanno dato il primo round di investimento. In un secondo momento, invece no, non poteva più andare avanti così”.
Come si sono strutturati, dunque? “Ho fatto un accordo con Google sulla parte di analisi del motore di dati, del motore di ricerca, in cui ci siamo strutturati con una dashboard. Quest’ultima era già presente nel mondo Travel per la parte Flight e per la parte hotel, ma semplicemente diceva: presa una nazione tipo il Brasile, quali sono le attrazioni, in quale città, in quali country, che i brasiliani ricercano di più? E quindi noi sapevamo esattamente ogni singolo mese che tipo di attrazioni cercavano i Brasiliani e in quali città.
Quindi avevamo questa dashboard con cui, sulla base dell’investimento che stavamo andando a fare lato demand, andavamo poi a colmare il gap lato supply sulla base di queste reportistiche e di queste dashboard che – tra l’altro – è tuttora in essere. Considerate che Google non ce l’aveva, l’abbiamo sviluppata noi in partnership con loro e tuttora viene utilizzata. Poi immagino che adesso altri del settore la utilizzino, considerando che il settore è in espansione. Una decina di anni fa si era stati i primi a sviluppare questa cosa in partnership con con Google ed è chiaro che poi tanto lo facevano i nostri accordi lato Supply.
Inoltre, spesso erano gli stessi Supplier che ci suggerivano e, soprattutto, avendo tanta integrazioni tecniche, noi facevamo l’integrazione, quindi il costo di mettere online un prodotto o 100, più o meno era lo stesso, soprattutto perché all’inizio tutto era automatizzato. Se poi vedevamo che certi prodotti iniziavano a fare vendite, allora li andavamo a rivedere, a tradurre, a curare”.
Per popolare la supply chain di Giglio.com, il team ha cominciato ad affiliare e ad appoggiarsi ai diversi negozianti. “Erano industry che conoscevamo bene perché sono i colleghi con i quali partecipavano alle sfilate, alle fiere di settore. Quindi abbiamo cominciato ad allargare la nostra affiliazione anche per cerchi concentrici proprio dal punto di vista geografico, quindi prima i colleghi vicini come Cefalù, Trapani, Catania, Messina. C’era un tema che logistico che dovevamo risolvere.
Per quanto riguarda la domanda, abbiamo ampliato quello che era il nostro catalogo e quindi di conseguenza potevamo servire meglio i clienti che atterravano su Gglio.com in cerca di brand che prima non avevamo o di articoli che erano terminati o che non erano precedentemente presenti, malgrado il brand fosse già rappresentato”.
Marco Ogliengo ci spiega di aver utilizzato la Lead generation. “Ci son vari motivi, ma uno dei principali è: dato che le parti spesso si incontrano fisicamente per confermare la transazione (e.g. un sopralluogo), qualora avessimo chiesto una commissione ci avrebbero semplicemente disintermediato”.
Giuseppe De Giorgi ci spiega come il loro modello di business si basasse su una fee per ogni partita giocata, che viene corrisposta dal centro sportivo se si tratta di campi convenzionati o direttamente dall’organizzatore nei campi non convenzionati. “Abbiamo scelto di puntare principalmente su una success fee perché ci è sembrata la strada migliore per allineare gli interessi di tutti i nostri stakeholder, creando un modello di business sostenibile e redditizio per l’intero ecosistema.
In questo modo guadagniamo solo quando i nostri partner generano ricavi, creando un modello win-win che ci motiva ad offrire un’esperienza di gioco di alta qualità. Questa strategia ha permesso di delineare un modello di business che non solo rende Fubles sostenibile, ma ci consente anche di creare valore per i nostri utenti e di stimolare la crescita della nostra community.
Inoltre, nel corso degli anni, abbiamo sviluppato numerose collaborazioni con brand che desiderano entrare in contatto con la nostra community. Queste partnership ci hanno permesso di aumentare i ricavi e, allo stesso tempo, di offrire ai nostri giocatori vantaggi e esperienze uniche, come ad esempio la possibilità di giocare con Alessandro Del Piero o di vincere un viaggio premio in Brasile proprio durante i mondiali del 2014“.
Un modello di business comune per i marketplace SaaS, come Uala o Treatwell, combina la monetizzazione tramite commissioni sulle transazioni con un modello di sottoscrizione per l’uso del software, come racconta Alessandro Bruzzi. “Il primo genera un flusso di entrate costante basato sul volume delle transazioni, mentre il secondo assicura un flusso di entrate prevedibile e ricorrente indipendentemente dal volume delle transazioni.
Questo è fondamentale non solo per la monetizzazione: un business recurring è molto più di valore di un business a transazione dove, per mantenere le transazioni, spesso bisogna continuare ad investire in marketing o attività SEO. Inoltre, la parte fissa introduce anche un valore di attenuamento della stagionalità ove presente e, in particolare nel beauty, l’effetto stagionalità è molto importante nei diversi mesi. Avere una monetizzazione variabile consente di controbilanciare anche questi trend. Ovviamente, il sottostante principale rimane l’utilizzo: con in testa questa metrica chiave si spinge prima alla monetizzazione SaaS, a meno che non si abbia subito il budget per effettuare grandi investimenti in awareness (come gli OOH): in tale caso si spinge prima sulla monetizzazione del marketplace per consentire anche di avere un budget in attività promozionali di scontistiche verso il consumatore finale”.
In Musement, come ci racconta Fabio Zucchini, veniva utilizzato un Business model classico. “Mettevamo una commissione sul prezzo del nostro Supplier, fermo restando che l’obiettivo era avere sempre il prezzo ufficiale del biglietto oppure sotto, quindi andavamo sul mercato con il price ufficiale fondamentalmente, ma avendo il prezzo di costo lato Supply (che di solito si aggirava a 10, 15% in meno), riuscivamo a fare markup. Ovviamente i markup non erano altissimi, soprattutto sulla parte Ticketing, per cui dovevamo fare molti volumi.
Giusto per darvi un esempio: dopo una decina d’anni, avevamo un marketplace dove c’erano gruppi di prodotti che avevano margini molto diversi, quindi c’era la parte ticketing che girava intorno al 7-10% sul transato, la parte di tour guidati che invece era più sul 15-20%, in base poi alle ai volumi a ai contratti che riuscivamo a chiudere. E, infine, eravamo anche noi stessi produttori di prodotti e rivenditori – un po’ come Netflix che produce le sue serie TV – e su quelli invece no, avevamo il 35-55% a volte anche di margine sul venduto perché le guide erano la nostre, i tour erano i nostri. Questi erano i tre grossi bucket di marginalità all’interno del di business model”.
Il marketplace di Giglio.com è invece un po’ ibrido. “In effetti nel marketplace le spedizioni dell’ordine vengono delegato al merchant, invece nel nostro caso utilizziamo la nostra logistica per gestire l’intero processo. Quindi, di fatto, noi vendiamo. Dopodiché, raccogliamo dal negoziante l’articolo che è stato venduto, lo portiamo nella nostra logistica, consolidiamo all’interno della nostra logistica e consegniamo al cliente finale. Questo ci serve per mantenere la piena proprietà della customer base, perché in questo modo noi non condividiamo con la nostra rete di merchant alcun dato che riguarda la clientela finale e parimenti non condividiamo con la clientela finale il surfing di prodotto. Il cliente compra Giglio e riceve un pacco da Giglio”.
Abbiamo chiesto anche in quanti mesi è stata raggiunta la liquidità/tipping point e, in generale, quando i nostri eroi si sono accorti che il loro marketplace cominciava a funzionare veramente.
Marco Ogliengo ci racconta di una crescita esponenziale. “Siamo partiti a marzo 2015. Ad agosto abbiamo lanciato le pagine SEO. A ottobre vedevamo il traffico che iniziava a crescere del 20% a settimana (esponenziale), seppur da una base piccola. Non c’era però ancora revenue e non avevamo ancora supply. Qualche mese dopo abbiamo preso 3 persone per iniziare a fare sales. Dopo 1 mese e mezzo di iterazioni sul pitch, abbiamo iniziato a fatturare come delle macchine. Abbiamo fatto 2 calcoli e ci siamo resi conto che avremmo dovuto assumere 15 persone per far fronte alla domanda e che lo stipendio di queste persone sarebbe stato subito ripagato”.
Secondo Giuseppe De Giorgi per raggiungere il tipping point è fondamentale creare valore per gli utenti e adottare strategie di marketing scalabili e sostenibili. “Il momento in cui abbiamo capito che Fubles aveva una grande potenzialità è stato quando, grazie al semplice passaparola, abbiamo iniziato a vedere partite organizzate al di fuori della nostra cerchia di amici, addirittura in città dove non avevamo mai fatto alcuna promozione particolare. Quando poi abbiamo iniziato a vedere un utilizzo costante, una retention altissima nei giocatori attivi ed un forte attaccamento al prodotto, abbiamo compreso di aver creato qualcosa di veramente utile e prezioso per tante persone”
Ma quanto tempo è stato necessario per raggiungere il tipping point? “Ogni mercato è diverso e la nostra esperienza in questo senso è stata influenzata dalla natura estremamente frammentata e territoriale del mercato sportivo. Noi abbiamo stabilito, in linea di massima, che una città può essere considerata ‘avviata’ quando sono state giocate almeno 20 partite nell’ultimo mese. In questo modo, siamo in grado di differenziare le strategie da adottare in ogni zona in base alla fase di maturità della community“.
Per Alessandro Bruzzi, uno dei concetti fondamentali per un marketplace è quello di “densità del mercato”. “La densità del mercato si verifica quando c’è abbastanza supply e demand in un’area geografica specifica, in modo che le transazioni avvengano regolarmente. Una volta raggiunta la densità del mercato, il marketplace può iniziare a scalare a livello regionale o nazionale.
E’ fondamentale operare per città e guardare la densità della popolazione che esiste in ogni città, facendo una lista della supply disponibile per abitante e tenendo sempre a mente il numero di abitanti assoluto di ogni città, prioritizzando in questo modo. La maggior parte dei marketplace di successo raggiunge la densità del mercato in una città specifica entro i primi 2-3 anni di operatività ma servono fino a 6/9 anni per arrivare ad avere un marketplace con la densità e liquidità/ disponibilità sufficiente a coprire la domanda a pieno”.
In Musement il tipping point non è mai stato un vero e proprio obiettivo, come spiega Fabio. “Il nostro obiettivo è sempre stata la crescita, quindi ci siamo resi conto che la cosa iniziava a girare quando siamo riusciti a ridurre drasticamente il costo di acquisizione del cliente. Per darvi un’idea, dopo 18 mesi comunque avevamo ridotto di tantissimo, di quasi il 70-80%, il costo di acquisizione prodotto. quindi avevamo capito che effettivamente piattaforma, campagne e varie proposition iniziavano a girare perché i clienti venivano, compravano ed erano soddisfatti. E iniziavamo ad avere retention. Per noi uello era l’obiettivo, perché soprattutto all’inizio abbiamo dovuto fare tanta education”.
“Noi abbiamo immediatamente compreso che quello che è il concetto di marketplace, ovvero che ci avrebbe aiutato a scalare molto velocemente le dimensioni del nostro business. Avevamo trovato il modo per superare quello che era limite naturale, quello del sourcing di prodotto”, ci ha raccontato invece Giuseppe Giglio.
Non solo gioie. Non potevamo non chiederei ai nostri eroi del prodotto qual è stato il momento più difficile in assoluto nel lancio e gestione del Marketplace.
Per Marco Ogliengo è arrivato dopo tutto aver raggiunto la liquidità. “È stato dopo tutto questo, quando abbiamo iniziato a cercare di garantire un numero minimo di preventivi per ogni richiesta ricevuta. Questo era il nostro KPI di bianciamento del marketplace (target x preventivi per ogni richiesta), e dovevamo raggiungerlo in ogni mercato. Avevamo 400 servizi su 110 province => 400 * 110 = 44.000 mercati. Inutile dire che nel 2021 (al momento dell’exit) non avevamo ancora raggiunto il bilanciamento in tutti i mercati”.
Una volta raggiunto il product-market fit, Giuseppe De Giorgi e il suo team si sono trovati di fronte a una delle sfide più impegnative: l’espansione territoriale in nuove aree geografiche. Scalare velocemente un two-sided marketplace, con la necessità di creare domanda e offerta in ogni nuovo mercato, partendo sempre da zero, è stato un compito estremamente oneroso e complesso.
“In particolare, l’espansione al di fuori dell’Italia è stata ancora più difficile, poiché non abbiamo potuto sfruttare la visibilità mediatica e l’attenzione che abbiamo ottenuto nel nostro paese d’origine nel corso degli anni. Abbiamo dovuto affrontare la sfida di competere in mercati altamente frammentati, caratterizzati da diverse culture, preferenze degli utenti e infrastrutture sportive.
La scalabilità geografica di un marketplace richiede una combinazione di analisi approfondita, adattamento strategico e investimenti mirati e significativi. Abbiamo quindi dedicato notevoli sforzi per acquisire una conoscenza dei mercati di destinazione, comprese le dinamiche di gioco, le preferenze degli utenti e le normative locali. Questo ci ha permesso di creare una strategia di espansione personalizzata, adattando la nostra piattaforma e il nostro approccio per soddisfare le esigenze specifiche di ciascun nuovo mercato. Un altro elemento cruciale è stato stabilire partnership locali solide e collaborare attivamente con organizzatori e centri sportivi nelle nuove aree geografiche. Questa stretta collaborazione ci ha permesso di costruire relazioni di fiducia e di promuovere attivamente la nostra piattaforma, garantendo una crescita sostenibile e una diffusione capillare della nostra comunità sportiva”.
Per Alessandro Bruzzi, uno dei problemi più comuni per un marketplace, oltre al disallinamento tra supply e demand, è l’effetto densità e disponibilità. “Il momento più difficile in assoluto è continuare a portare clienti nuovi: all’inizio la supply che entra è la migliore. Più si spinge l’acceleratore sull’acquisizione di supply, più la qualità scende perché il mercato è distribuito secondo una variabile normale. E la maggior parte dunque è supply media: più scende il rapporto di qualità, più si alza il bisogno IMMEDIATO di usare il SaaS come punto di ingresso del marketplace, snaturando di per se il driver di SaaS come principio fondante di una buona supply“.
In altre parole, si vuole solo usare il software per attirare nuovi clienti. In questo momento il disallineamento è massimo.“La nuova supply entra per cercare principalmente nuovi bookings ma la domanda non è assolutamente pronta ad avere questo tipo di elasticità. Per questo bisogna controbilanciare con misure di incentivi lato supply che finisca su marketplace, lato marketing e branding e questo crea anche un momento a livello di cash flow molto intenso e stressante.
Senza contare che non sarà facile tenere il conversion rate alto perché nel momento in cui ci si espande mainstream (il momento in cui la supply media entra come tipologia, è il momento in cui anche la demand entra a livello mainstream e non sono piu gli early adopters), si finisce nella trappola dell’education del first mover.
La nuova domanda più generalista comporta anche una educazione al servizio: i momenti più difficili sono anche caratterizzati dalla situazione di first mover dove non bisogna solo attirare il target residuale che vuole prenotare un salone di bellezza differente ma anche educarlo ad un nuovo modo oltre alla chiamata telefonica. Se si supera tutto questo, poi si incorre nella situazione in cui si deve scalare da una città a molteplici o ancora peggio a Paesi diversi, con culture, utilizzi e consumi differenti. Benvenuti nel club”.
Il momento più difficile in Musement è stato l’inizio, quando era necessario fare education. “I clienti non erano ancora abituati a comprare online e lì ci siamo messi noi, in partnership con i nostri Supplier , a spingere un po’ questo questo mercato. E quella era, se vuoi, la cosa tutta da provare ancora o meglio era già provata da Focus Group, dati, survey e quant’altro, però sui grossi volumi (l’abbiamo già visto anche su altri mercati, anche su marketplace), magari non sempre funziona; invece nel nostro caso devo dire che comunque ha funzionato ed è andata sicuramente molto bene.
Ci siamo resi conto che iniziava a girare quando avevamo delle metriche lato marketing che erano una perfetta equazione matematica. Noi stavamo investendo 1€, esattamente quanto sarebbe stato il ritorno, e questa cosa dopo dopo 3 anni è diventata proprio scientifica. Quindi, riuscivamo a prevedere in automatico tutto quello che andavamo a investire. Quindi, da quel punto lì aveva capito che eravamo riusciti a craccare un po il sistema sia lato demand che lato supply, per far convergere tutto in un business model che forse sostenibile. A quel punto era solo un tema di scalabilità: si trattava di raggiungere la profittabilità e quant’altro. Poi la stavamo raggiungendo, ma abbiamo fatto l’exit, abbiamo venduto tutto e quindi poi è cambiato un po’ lo scenario”.
In Giglio.com il problema non è la supply né la domanda, ma la logistica. “Rappresenta la vera sfida da affrontare per poter servire il cliente nel miglior modo possibile e nel più breve tempo possibile, malgrado ci siano più passaggi rispetto a quello che è un marketplace ordinario. La vera sfida è questa, legata ovviamente all’esperienza finale di acquisto e quindi anche la customer care”.
Le slide sono disponibili per studenti ed ex studenti del Master in Product Management